Non è la prima volta che un film viene travolto dalle critiche, e circa un mese fa è toccato a Via col vento. Ma come è nata, la controversia sembra essere morta, senza fare troppo rumore. Ma quindi, Via col vento è razzista? O non interessa più a nessuno?
Proviamo a ricostruire la vicenda a mente fredda, ora che le polemiche sterili sono finite e possiamo, si spera, parlarne con raziocinio e calma.
La “censura” di HBO
La HBO aveva rimosso temporaneamenteVia col Vento, per poi caricarlo nuovamente sulla piattaforma di streaming HBO Max con un’introduzione da parte della studiosa Jacqueline Stewart. Un disclaimer per HBO obbligatorio per contestualizzare un film che propone ideali razzisti e che nega gli orrori della schiavitù perpetrata negli USA. La critica si è ben presto divisa in due fazioni, da una parte i puristi dall’altra chi chiedeva a gran voce che anche altre piattaforme prendessero posizione, non solo su Via Col Vento, ma anche con altri film e cartoni “invecchiati male”. Una richiesta che molti hanno accettato di buon grado, da Sky che ha aggiunto dei disclaimer prima dei film considerati razzisti, e Netflix ha recentemente cambiato la descrizione di Via col Vento.
Da cosa è nata la controversia?
Il tutto è riconducibile alla lettera aperta scritta dal regista di colore John Ridley (12 anni schiavo) pubblicata sul The Los Angeles Times. La sua richiesta era chiara: rimuovere dalla piattaforma Via col Vento per affiancarlo a documentari e film che mostrassero e contestualizzassero gli orrori della schiavitù, invece che glorificare il Sud come luogo pieno di grazia e virtù.
Secondo il regista infatti il film glorifica gli Stati del Sud prima della guerra, perpetrando stereotipi delle persone di colore e ignorando le problematiche sociali intorno all’argomento.
Via col Vento, non solo non è all’altezza per quanto riguarda la rappresentazione delle minoranze. È un film che glorifica gli stati del sud prima della guerra. È un film che, quando non ignora gli orrori della schiavitù, fa una pausa solo per perpetuare alcuni degli stereotipi più dolorosi delle persone di colore.
È un film che, come parte del racconto della “Lost Cause” (causa persa) romanticizza la Confederazione in un modo che continua a dare legittimità all’idea che il movimento secessionista fosse qualcosa di più, o meglio, o più nobile di quello che era – una sanguinosa insurrezione per mantenere il “diritto” di possedere, vendere e comprare esseri umani.
L’idea di un disclaimer viene proprio da questa lettera, ed è stata ben presto accolta dalla Warner (che possiede HBO). Il film è stato rimosso, e ora è disponibile affiancato, come abbiamo detto nell’introduzione, da una discussione sul contesto storico in cui è ambientato.
Le controversie: non è la prima volta
Questa però non è la prima volta che Via Col Vento viene criticato aspramente. Già durante la produzione del film ricevette aspre critiche. Lo stesso Selznick, produttore di Via col Vento, ha dichiarato in un memorandum di non avere nessun desiderio di produrre un film anti-neg*o. L’intento infatti era di far passare gli schiavi afroamericani come dei buoni personaggi, dalla parte giusta della storia. Questo però significa tagliare, modificare e censurare alcune parti del libro originale, prima fra tutte la rappresentazione del Ku Klux Klan come un male necessario.
Un gruppo di uomini può andare a punire i colpevoli di un tentato stupro senza indossare lunghi lenzuoli bianchi e senza avere come motivazione principale l’appartenenza a una società.
Le critiche però furono anche esterne, e vari gruppi afroamericani scrissero a Selznick preoccupati per l’adattamento a film. La critica, mossa quasi cento anni fa da un gruppo di Pittsburgh, è molto simile a quella odierna:
Via Col Vento è considerato una glorificazione del vecchio e marcio sistema della schiavitù, che propaganda l’odio raziale e il bigottismo, oltre che incitare al linciaggio.
La paura era che un romanzo contro la comunità nera si trasformasse anche in un film razzista.
Anche Walter White, il segretario dell’Associazione Nazionale per il progresso delle persone di colore (NAACP), scrisse al produttore. Si offrì infatti di mandare degli articoli che mostravano come la visione storica di Mitchell (autrice del romanzo) fosse fortemente parziale e condizionata da bias. Suggerì inoltre di assumere una persona, preferibilmente di colore, per controllare la presenza di errori o false rappresentazioni nel film.
Selznick International però rassicurava il pubblico: nessuno vuole diffondere film offensivi che promulgano il pregiudizio razziale. Il regista inoltre dichiarò che non voleva piegarsi alla visione ristretta del pubblico, sia per una questione morale, sia perché lui stesso faceva parte di una minoranza – Selznick era infatti ebreo – e quindi non era nei suoi interessi promulgare l’odio razziale.
Proprio per attenzione alla “questione razziale” prese in considerazione Hall Johnson, con cui aveva già dei contatti, come suggerito da White, per supervisionare il modo in cui le persone di colore venivano rappresentate durante il film. Lo stesso Johnson – capo del coro Hall Johnson e già collaboratore in The green Pastures e Slave Ship – scrisse a White, rassicurandolo che lui e Selznick avevano le stesse opinioni per quanto riguardava la rappresentazione delle persone di colore.
Mr. Selznick mi ha inviato una copia della tua lettera riguardo Via col Vento, con allegato la sua risposta. Non vedo come la sua risposta potrebbe essere più chiara, e sicuramente ti avrà soddisfatto senza alcuna amplificazione dalla mia parte. Posso però dirti che quando ho accettato il lavoro Mr Selznick e io abbiamo scoperto di essere in completo accordo sugli aspetti della pellicola che ti preoccupano. Abbiamo entrambi deciso, fin dall’inizio e indipendentemente l’uno dall’altro, che nel film non dovrebbe esserci alcuna menzione del Ku Klux Klan e non dovrebbe mostrare alcun tipo di violenza contro le persone di colore.
White comunque rimase scettico, vista la superficialità del libro, che secondo la sua opinione avrebbe reso quasi impossibile creare un film che non fosse inaccurato e dannoso. Alla fine la faccenda si concluse con l’assunzione di due supervisori, entrambi bianchi.
La parola “nigger”
Una delle principali critiche mosse al film proveniva da The Pittsburgh Courier, e riguardava proprio la famigerata “N word”. In quel periodo infatti i film erano sottoposti a un attento scrutinio della censura, e una delle linee guida imponeva che la parola nigger non potesse essere usata da persone caucasiche. La parola darkies, invece, andava bene. Non c’erano però restrizioni sull’uso della parola da parte di attori di colore, e proprio su questo aspetto The Pittsburgh Courier si è soffermato.
Anche una delle attrici, Butterly McQueen (Prissy) non era d’accordo con l’uso della parola, e ha più volte protestato. Le sue rimostranze sono state condivide anche da Hattie McDaniel (Mami), che però era più restia a renderle note per paura di perdere il lavoro, e di non riuscire più a trovare ruoli in futuro.
Alla fine però le proteste sono state ascoltate, e nella versione finale del film non c’è traccia della parola nigger, solamente di darkies e inferiors.
L’endorsement degli attori di colore
Nonostante parte delle rimostranze provenisse proprio dagli attori, le pressioni per mostrare un buon visto alla stampa furono molte, forse proprio a causa di queste lamentele. Russell Birdwell, impiegato nelle pubbliche relazioni di Selznick International, ha infatti incoraggiato gli attori di colore a rilasciare interviste e dichiarazioni a favore del film, proprio per allontanare le critiche di razzismo. È nata così una campagna pubblicitaria di “pulizia” del film, a cui ha contribuito anche Oscar Polk (Pork), che ha dichiarato al Chicago Defender:
Come razza dovremmo essere orgogliosi di esserci sollevati molto al di sopra dello status dei nostri antenati schiavi e che sia lui che i suoi colleghi dovremmo essere lieti di presentarci come eravamo una volta perché in nessun altro modo possiamo dimostrare in maniera così sorprendente dove siamo arrivati in così pochi anni.
Le critiche si sono placate, almeno in parte, anche grazie a Hattie McDaniel, acclamata dalla critica per la sua performance e per aver portato sul grande schermo un personaggio di colore che sì, è uno schiavo, ma è allo stesso tempo presentato come forte, deciso, compassionevole e umano, nonostante rimanessero delle scene un po’ macchiettistiche. Il suo personaggio però rimane uno dei più controversi, e anche criticati, di tutto il film.
Questa azione di marketing però non placò le proteste, che vennero comunque organizzate fuori dai cinema all’uscita del film.
Hattie McDaniel: meglio interpretare una domestica che esserlo
Di tutte queste polemiche quella che più colpisce è rivolta a Hattie McDaniel, l’attrice afroamericana che interpretò Mami. Proprio per questo ruolo McDaniel vinse un oscar come miglior attrice non protagonista: è stato il primo Oscar della storia ad essere consegnato a una donna di colore.
Ma può un riconoscimento dato da un establishment ancora fortemente razzista cancellare le polemiche?
Perché, nonostante si tratti di un avvenimento storico, rimangono molte ombre. Prima fra tutte il trattamento riservato a McDaniel durante la premiazione. Anche durante quell’occasione troviamo delle proteste contro il razzismo organizzate davanti all’Ambassador Hotel, dove si tenne la cerimonia. Una volta dentro ha ritirato il premio (ricevendo una stretta di mani dal collega Clark Gable e un bacio sulla guancia da Vivien Leigh, entrambi bianchi) e ha fatto il suo discorso, in cui esprimeva il suo desiderio di essere sempre un credito alla sua razza. Nonostante abbia vinto uno dei premi più ambiti, però, McDaniel ha rischiato di non poter presenziare alla cerimonia proprio a causa delle leggi razziali in vigore. È stato solo grazie alle insistenze di David Selznick che poté partecipare, anche se a un tavolo separato rispetto agli altri attori. La cerimonia si è tenuta nel 1940, ma solo nel 1959 questa regola è stata cancellata.
McDaniel rimane quindi una figura controversa, da un lato lodata per essere riuscita a conquistare un traguardo all’epoca impensabile, dall’altro criticata per aver fatto parte dello stesso establishment che la segregava a un tavolo in disparte nonostante fosse una delle star della serata.
Uno dei suoi critici maggiori fu proprio Walter White, che abbiamo nominato in precedenza, dato che continuava a interpretare stereotipi razziali senza combattere perché le cose cambiassero, e di fatto erano servi dei bianchi e agenti attivi al servizio del governo nell’oppressione verso i neri. L’attrice infatti non si associò mai ai movimenti di protesta per i diritti civili, e la sua entrata nella Negro Actors Guild of America tardò ad arrivare. Infatti si unì all’associazione solo nel 1947, praticamente a fine carriera.
Un altro suo punto a sfavore fu il suo rifiuto di parlare di politica e di prendere posizione.
Il personaggio di Mami fu controverso quanto l’attrice che lo interpretò: da un lato abbiamo una parte di critica che lo loda, ammirandone la profondità e la forza dei suoi sentimenti, dall’altro chi vede solo l’ennesimo stereotipo della schiava nera dedita alla famiglia che le ha tolto la libertà.
Carlton Moss, sceneggiatore, attore e regista afroamericano, scrisse su The Daily Worker che il film offriva una variegata collezione di personaggi neri piatti che insultavano il pubblico nero, e in particolare il personaggio di Mami risultava particolarmente ripugnante.
E quindi? È razzista?
Come ogni opera Via col ventoè figlia della sua epoca. Prima il libro di Margaret Mitchell – che, a onor del vero, risulta razzista oltre che un po’ cringe agli occhi del lettore moderno – e poi il film, vanno visti con occhio critico e informato. Non possiamo pretendere che opere che provengono da un’altra epoca, in cui il razzismo era istituzionalizzato e legale, si adattino agli standard moderni. Dall’altro lato non dovrebbe nemmeno essere compito della piattaforma di streaming educare lo spettatore con qualche disclaimer e qualche minuto di documentario, questo compito va alla scuola e alla società. Cambiare la descrizione su Netflix o aggiungere qualche documentario all’inizio non cambierà il fatto che Via col vento è nato a causa, e da, un certo contesto sociale, insieme a tutte le brutture che ne derivano. È un’opera di intrattenimento, e in quanto tale influenza, ed è influenzata, dalla cultura che la circonda, ed è inutile creare una polemica del genere per poi dimenticarsene dopo qualche giorno, senza approfondire e cercare di capire le problematiche che l’hanno generata in primo luogo.
In tutta questa polemica si è persa di vista la luna e ci si è concentrati sul dito.
Giornalista pubblicista e Laureata in Lingue e Culture per l’Editoria. Procrastinatrice seriale, vado avanti a forza di caffeina e ansia e in qualche modo sta funzionando. Mi piacciono la lettura, i Beatles, lo Spritz Campari e le maratone (Netflix). Non mi piacciono il caffè annacquato, scrivere biografie e fare liste.
Empire Of Shit: È italiano il nuovo film in collaborazione con il mangaka Shintaro Kago, autore di “Principessa del castello senza fine”, “Fraction”, ”Anamorphosys” e tanti altri titoli cult per i fan del genere.
Il regista infatti è Alessio Martino: Salerno, classe ‘2000, laureando in Cinematografia presso l’accademia delle Belle Arti di Napoli.
Questa storia inizia nel 2021, quando Kago e Martino incrociarono le loro strade grazie alla partecipazione di quest’ultimo al Contest Cinematografico Unco Film Festival, in cui il famoso mangaka partecipava in qualità di organizzatore e giudice. Martino presentò allora il suo corto “Brief Clisterization of Ideology”, ambientato in un mondo distopico, con la quale si aggiudicò il secondo posto.
Un anno dopo, nel 2022, Martino partecipò nuovamente al concorso con il film “The Formidable Wave that Destroyed and Recreate the World”, aggiudicandosi questa volta il primo premio: la merda d’oro.
Vi è infatti un tema comune in queste opere: la merda. Ed è infatti da questa idea, che Martino presentò a Kago nel 2023, che nasce The Empire of Shit.
La trama è apparentemente molto semplice:
Una giovane donna desidera che le sue feci abbiano un profumo gradevole, e il suo desiderio si avvera. Questo scatena la cupidigia del suo fidanzato, che vede un’opportunità di lucro in questa straordinaria qualità, trasformando una situazione intima in un’impresa commerciale bizzarra e surreale. Ci sarà però un’escalation di eventi, che porterà ad un finale inaspettato. Se tutto ciò vi ha incuriosito: non sentitevi soli, anche noi vorremmo sapere di più su cosa aspettarci, e proprio mossi da questa curiosità, abbiamo intervistato Alessio Martino, il regista di Empire of Shit.
Ciao Alessio, innanzitutto grazie per averci concesso questa intervista, perdonami ma la peculiarità del progetto mi porta a saltare alcune domande di rito e passare direttamente a questa:
Perché la Merda?
Ed è questa la domanda che ogni autore vorrebbe sentirsi porre. Scherzi a parte, sia io che Kago abbiamo molto a cuore il tema della merda perché nessuno gli dà il giusto peso. Che sia una commedia o uno Splatter la merda finisce sempre per essere del grottesco fine a se stesso ma fermandoci a riflettere sopra la materia di scarto ci si può trovare una grande fonte di riflessione.
Qual è il processo creativo dietro le scelte più audaci, sia visivamente che a livello narrativo?
Il divertimento. Quando il progetto è nato c’era una sola idea chiara in ballo: un Gojira fatto di cacca. Questo è uno di quei progetti dove il perno centrale su cui tutta questa macchina deve muoversi è proprio il divertimento. Dai costumi alla recitazione, tutto deve essere motivato dalla voglia di sperimentare e divertirsi su qualcosa che non si prenderà mai abbastanza sul serio… e forse proprio per questo sarà molto più seria di quanto essa stessa crede.
Hai lanciato una campagna indiegogo per finanziare questo progetto: qual è il tuo end-goal?
Prendere i soldi e scappar… cioè! volevo dire, realizzare un lungometraggio. Anche se sembra un’impresa titanica il goal finale sarebbe quello di poter estendere la durata del film al punto tale da darle un corpo vero, e con esso verrebbero tutte quelle fantastiche chicche in più, come la storia manga prequel disegnata da Kago
Come hai attirato l’attenzione del Maestro Kago?
Ma, di per sé è stato un evento molto organico. Ero a Lucca Comics per girare un documentario, lui era lì come ospite e gli ho semplicemente chiesto di prenderci una birra insieme (le birre alla fine furono molto più di una). Da lì Kago mi ha dichiarato tutto il suo interesse nel voler dedicarsi da anni ad un progetto cinematografico senza avere però mai il tempo per poterlo fare effettivamente. E da quì è arrivata la mia proposta…
Quanto influisce la presenza del mangaka sulla produzione del film?
Tantissimo. Sotto ogni aspetto. Il progetto senza di lui non esisterebbe proprio. Tutto l’aspetto visivo della fabbrica, dei mostri (Coff, coff… scusatemi per lo spoiler), della palette cromatica e del taglio narrativo è tutto frutto della sua vena artistica che noi come troupe stiamo concretizzando.
Che emozioni pensi scaturirà il tuo corto nel pubblico?
Così come ti dicevo riguardo il processo creativo, io spero diverta. Spero davvero che lo spettatore si senta annichilito da tutta la follia che gli verrà tirata addosso e che l’unica cosa sensata che si senta di fare sia ridere. Se poi restassero shockati e traumatizzati al punto tale da volerci denunciare, beh se la vedranno con i legali miei e di Kago!!
Posso avere anche io dei gadget?
No. Scherzo! Se la campagna supererà il goal base, ci saranno belle sorprese per tutti i donatori, ma non posso dire altro ora.
Ti ringrazio nuovamente per averci dedicato del tempo parlandoci del tuo progetto.
Ma grazie a te per avermi dedicato il tuo. E come dice la nostra mascotte Mr. Unkoman: “Unko! Unko! Unko!”.
Cari lettori, non sappiamo esattamente cosa aspettarci, ma l’hype c’è, e sicuramente ciò che fa più piacere è vedere un talento emergente nostrano mettersi in gioco.
Potete anche voi finanziare questo progetto tramite la campagna indiegogo!
Il documentario Il Padiglione sull’Acqua è un viaggio, estetico e poetico, nell’immaginario dell’architetto veneziano Carlo Scarpa e nella sua passione per la cultura giapponese. Il Giappone rappresentò per l’architetto un universo ispirazionale ma fu anche il luogo dove egli morì, nel 1978, all’apice della sua carriera, ripercorrendo misteriosamente i tragitti del poeta errante Matsuo Bashō.
Attraverso le impressioni suggerite dal filosofo giapponese Ryosuke Ōhashi, la narrazione si sviluppa lungo il filo di una domanda, la domanda sul senso della bellezza. La possibilità̀ di questa riflessione accomuna qui le opere scarpiane e l’estetica tradizionale giapponese. Venezia, nella veste di porta verso l’Oriente e luogo di nascita di Scarpa, e l’esplorazione incantata delle sue opere, sono l’occasione per rievocare la poetica ed episodi emblematici della vita dell’architetto.
Essi sono restituiti attraverso le parole del figlio Tobia, dagli allievi Guido Pietropoli, Giovanni Soccol e Guido Guidi, e dal ricercatore J.K. Mauro Pierconti. Un sentimento di nostalgia colora tutta la narrazione. Una nostalgia per quell’evento raro che è la nascita di un artista. Seppur ora abbia abbandonato questa terra, lascia in dono le sue opere e la meraviglia che esse tuttora suscitano.
Carlo Scarpa il Giappone
Carlo Scarpa amava definirsi «bizantino nel cuore, un europeo che salpa per l’Oriente» e proprio come l’artista veneziano, Stefano Croci e Silvia Siberini viaggiano attraverso le ispirazioni nipponiche che lo hanno guidato nella sua costante ricerca del senso della bellezza.
Per farlo, in Il padiglione sull’acqua si fanno guidare dalle ispirazioni del filosofo Ryōsuke Ōhashi e dalle testimonianze del figlio Tobia Scarpa, degli allievi Guido Pietropoli, Giovanni Soccol e Guido Guidi, del ricercatore J.K. Mauro Pierconti, degli artigiani Paolo e Francesco Zonon e della maestra di ikebana Shuho Hananofu.
Nel 1978 Carlo Scarpa tornò in Giappone. Nessuno sa con precisione quali fossero i suoi intenti. Il celebre architetto giapponese Arata Izosaki ha ipotizzato che stesse ripercorrendo le stesse tappe del poeta errante Matsuo Bashō, riportate nel diario di viaggio Lo stretto sentiero verso il profondo nord, ma purtroppo morì a seguito di una tragica caduta e non raggiunse mai la meta anelata.
Lasciò incompiute delle opere, che lo resero ancora più celebre, come il Memoriale Brion a San Vito di Altivole in provincia di Treviso, scelto anche da Denis Villeneuve tra le location del prossimo capitolo di Dune.
Apple TV+ ha svelato il trailer di “Constellation”, il nuovo thriller psicologico composto da otto episodi intepretato da Noomi Rapace (“Millennium – Uomini che odiano le donne”, “Non sarai sola”, “Lamb”, “Seven Sisters”) e dal candidato all’Emmy Jonathan Banks (“Breaking Bad”, “Better Call Saul”). La serie farà il suo debutto su Apple TV+ il 21 febbraio con i primi tre episodi seguiti da un episodio a settimana, fino al 27 marzo.
Creata e scritta da Peter Harness (“Il commissario Wallander”, “The War of the Worlds”), “Constellation” ha come protagonista Noomi Rapace nel ruolo di Jo, un’astronauta che torna sulla Terra dopo un disastro nello spazio e scopre che alcuni pezzi fondamentali della sua vita sembrano essere scomparsi. La serie è un’avventura spaziale ricca di azione che esplora i lati più oscuri della psicologia umana e segue la disperata ricerca di una donna nel tentativo di svelare la verità sulla storia dei viaggi spaziali e di recuperare tutto ciò che ha perso.
Cast Constellation
Nel cast della serie figurano anche James D’Arcy (“Agent Carter”, “Oppenheimer”), Julian Looman (“Emily in Paris”, “Mallorca Crime”), William Catlett (“A Thousand and One”, “Coppia diabolica”), Barbara Sukowa (“Passioni violente”, “Hannah Arendt”) e con la partecipazione di Rosie e Davina Coleman nel ruolo di Alice. Diretta dalla vincitrice del premio Emmy Michelle MacLaren (“Shining Girls”, “The Morning Show”, “Breaking Bad”), dal candidato all’Oscar® Oliver Hirschbiegel (“La caduta – Gli ultimi giorni di Hitler”, “The Experiment – Cercasi cavie umane”) e dal candidato all’Oscar® Joseph Cedar (“Footnote”, “Our Boys”).
Produzione
Prodotta da Turbine Studios e Haut et Court TV, “Constellation” è prodotta esecutivamente da David Tanner (“Small Axe”), Tracey Scoffield (“Small Axe”), Caroline Benjo (“No Man’s Land”), Simon Arnal (“No Man’s Land”), Carole Scotta (“No Man’s Land”) e Justin Thomson (“Liaison”). MacLaren dirige i primi due episodi ed è produttrice esecutiva insieme a Rebecca Hobbs (“Shining Girls”) e al co-produttore esecutivo Jahan Lopes per conto della MacLaren Entertainment. Harness è produttore esecutivo attraverso la Haunted Barn Ltd. La serie è stata girata principalmente in Germania ed è stata prodotta da Daniel Hetzer (“Monaco – Sull’orlo della guerra”) per Turbine Studios, Germania.