Sabrina è diventato Riverdale. Per quanto chi scrive non abbia effettivamente visto la serie che incarna il secondo elemento del paragone, la quantità di input, argomentazioni ed esempi a favore ricevuti da chi ha effettivamente seguito l’altro show del team Archie Productions è piuttosto spiazzante. Alla sua base, tale paragone non suona e non è affatto lusinghiero. Tutt’altro. È testimone di un processo di svilimento delle tematiche, di confusione e abbassamento nei toni del racconto, di eccessiva e incontrollata iniezione di elementi da teen drama di serie C in vena ad una serie che, a ben vedere, era già a un passo dall’overdose. Tutti elementi tranquillamente riscontrabili, in questa terza stagione di Sabrina, senza la necessità di andare alla ricerca di chissà quali pattern metanarrativi e di mercato. Eppure l’affermazione resta interessante. O meglio: lo diventa – nel momento in cui si accodano le giuste domande.
“Perché Sabrina è diventato Riverdale?” è un ottimo punto di partenza. Sarebbe ingenuo, in fondo, pensare che a così alti livelli di produzione agli scrittori sia semplicemente “permesso” di decidere “ma sì, infiliamo almeno tre gratuite coreografie da cheerleader; con tanto di canto!” in una storia con Satana e Lilith tra i suoi personaggi. Che dietro simili scelte ci sia un preciso intento è piuttosto scontato. Simili scelte modificano il tono; determinati tipi di tono respingono e attraggono determinati tipi di pubblico, determinati tipi di target; determinati tipi di target sono più fedeli, ergo più redditizi, di altri. Sia chiaro: non se ne vuole fare un mero discorso di ricavi e di guadagni. Nella maggior parte dei casi, un target definito ed inequivocabile ha i suoi indubbi vantaggi anche per il consumatore, poiché il prodotto, anziché offrire “un po’ di tutto a tutti”, offre a coloro che sono effettivamente interessati un’esperienza più appagante. Più personale.
Che piaccia o no, la terza stagione di Sabrina ha fatto proprio questo: ha ristretto il suo target. Ha mantenuto quel tanto di struttura e trama necessaria a illudere che la serie abbia ancora una storia che tratta di streghe, inferno e divinità pagane, solo per riempire gli spazi lasciati vuoti di triangoli (quadrati? Dodecaedri?) amorosi, di colpi di scena da B-movie e di modelli palestrati con la tendenza a dimenticare la maglietta a casa.
Di certo, chiunque abbia iniziato a seguire le Terrificanti Avventure di Sabrina con l’intento di scoprire tra i meandri del suo copione una sensibile esplorazione del conflitto insito nel trovarsi separati tra due (tre?) mondi non sarà andato oltre la prima stagione; forse persino la prima puntata. Tematicamente parlando, la serie non è mai stata in grado di dare chissà quali spunti di riflessione sulla condizione umana o – volendo ridurre la prospettiva – sulla condizione adolescenziale. Quindi perché sprecare energie su quello che non sarà mai (e non sarebbe mai dovuto essere) un punto di forza? Nel suo essere considerevolmente più “trash”, più “cringe” (parole che ormai vogliono dire tutto e niente) delle due stagioni che l’hanno preceduta, la terza stagione di Sabrina è, paradossalmente, molto più onesta nei confronti di sé stessa e del suo target. Nel mandare all’inferno qualsiasi forma di coerenza interna e di Worldbuilding, nel gettare la sua protagonista all’interno di schemi cosmico-universali sempre più colossalmente assurdi (e sempre più comicamente minimizzati rispetto quella che dovrebbe essere la loro “realistica” magnitudo), la serie lancia una chiara, forse necessaria dichiarazione d’intenti: “no, ragazzi, tranquilli: non ci stiamo prendendo sul serio”.
E meno male. Meno male, perché una simile consapevolezza d’intento potrebbe bastare a cambiare la percezione di molti. A consentire, a chi ancora si illudeva di poter prendere Sabrina completamente sul serio, di adottare un cambio d’atteggiamento graduale e indolore. Di continuare a godersi l’assoluta assurdità del viaggio. Ma sia chiaro: pur disposti a chiudere un occhio e mezzo, questa terza stagione ha camminato su un filo di rasoio molto, molto appuntito, forte di un equilibrio estremamente precario. Arrivati a questo punto, una spinta di troppo da una parte o dall’altra potrebbe determinare un capitombolo di proporzioni epiche.
Oh, beh: se non altro avremo ancora Hilda.
Francesco Cavalletti