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Nier Automata: uno, nessuno, centomila finali

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Pensate al finale di una storia, qualsiasi sia il medium attraverso cui è stata narrata. Chiedetevi: “l’ho apprezzato? L’ho odiato? Mi ha deluso?” È probabile che la risposta che vi siete dati ricalchi almeno in parte l’opinione che avete della storia nel suo complesso. Non è del resto un mistero che nella chimica di una narrazione il finale incarni forse l’elemento fondamentale, quello di cui il prodotto completo non può fare a meno se vuole aspirare a una ricezione positiva. 

Salvo esperienze narrative transmediali e videogiochi, il “finale” classicamente inteso è l’ultimo messaggio trasmessoci dalla storia; l’ultima parola, l’ultima immagine, l’ultima sensazione. Se questa è positiva, la possibilità che eventuali difetti e buchi di trama siano dimenticati o perdonati sale sensibilmente; se invece è negativa, qualsiasi mancanza ci apparirà irrimediabilmente più palese. Riuscire a proporre un finale convincente dovrebbe dunque essere la principale preoccupazione di qualsiasi narratore – quale che sia il medium che questi utilizza per raccontare la sua storia. E il medium videoludico, com’è lecito aspettarsi, non fa eccezione. 

Neanche quei videogiochi che incorporano una struttura narrativa minimale per dare incontrastato risalto all’aspetto ludico non sono esenti dal processo, in quanto un finale, ricco o povero di “trama” che sia, sempre un finale rimane agli occhi del consumatore. Nel momento in cui i titoli di coda cominciano a scendere e la soundtrack a sviolinare sarà naturale percepire un sentimento di chiusura, di completezza, e il senso critico di chiunque sarà di conseguenza portato a “fare il punto della situazione”. Il gioco è finito, e la sua storia con sé: cosa mi hanno lasciato?



Uno, cinque, ventisei finali

Le convenzioni che gravitano attorno all’importanza di un finale sono numerosissime, e lo sono in particolar modo per quei media che hanno alle spalle una longeva e prolifica produzione critica quali cinema e letteratura. Ciò non toglie, tuttavia, che l’unicità del medium videoludico possa permettere agli autori più dotati di sperimentare con il concetto stesso di “finale” in maniere che a film e romanzi sono recluse per natura. 

Nier: Automata”, titolo del 2017 nato dalla collaborazione di Yoko Taro e di Platinum Games, è un eccellente quanto eccentrico esempio di tale possibilità. Chiunque abbia esaurito il contenuto del gioco saprà bene che esistono ben ventisei finali, ognuno dei quali è associato a una lettera dell’alfabeto inglese. Solo cinque sono “veri” finali (ci soffermeremo più avanti su cosa “vero finale” significhi nell’economia di questo titolo): i restanti ventuno sono “joke ending”, “finali scherzo” o anche “bad ending” in quanto terminano spesso con la morte prematura e a volte esilarante dei protagonisti della storia. Inutile soffermarsi troppo su questi “finti finali” in quanto il loro valore intrinseco è trascurabile nella maggior parte dei casi. 

Presi singolarmente diventano quasi dei collezionabili, dei premi per quei giocatori in grado di pensare fuori dagli schemi, volenterosi di sperimentare, di andare contro quello che appare come il “naturale sviluppo” della storia. In determinati casi, sembrano quasi una punizione degli sviluppatori. Ad esempio: Decidi di uccidere le macchine pacifiste che hanno offerto la loro disponibilità a trattare la pace? La pace ora è impossibile. Titoli di coda in fast forward. Game over. Decidi di fare l’eroe e aiutare le due androidi gemelle anziché occuparti di hackerare il sistema di sicurezza della porta, come ti è stato ordinato? Pensata illogica. Titoli di coda in fast forward. Game over. Nulla di troppo innovativo, appunto. Il peso di una scelta che conduce immediatamente al Game Over è pressoché nullo, ed è un espediente narrativo che non solo non è nuovo al videogioco (basti pensare ai bad ending di offerti dall’esperienza visual novel), non lo è neanche per il libro (qualcuno ricorda “Lupo solitario”?).



Corsi e ricorsi

È solo quando si raggiungono i primi due “veri” finali (A e B) che si cominciano ad apprezzare i commenti e le sottigliezze più arguti dell’opera. I due archi narrativi che conducono a suddetti finali sono pressoché identici nella sostanza, ma le poche, sottili variazioni (il trasferimento del punto di vista da 2B a 9S e l’importante rivelazione sulla vera natura del progetto YoRHA) fanno sì che il giocatore percepisca come radicalmente differente quella che in realtà è la medesima scena di chiusura

I toni agrodolci, quasi felici del Finale A scivolano pericolosamente verso il malinconico e il tragico nel finale B: perché ora sappiamo ciò che 9S, il secondo protagonista, ha scoperto, sappiamo che l’impresa prima apparsaci titanica sia in realtà insignificante nel grande schema delle cose e sospettiamo, per quanto sotterraneamente, che un vero finale felice non sia plausibile. Che questa non possa essere la fine. Non c’è cambio di musica, non c‘è cambio di regia che spinga artificialmente il giocatore a provare emozioni così radicalmente differenti; solo un cambio di punto di vista. Solo un’informazione in più, sapientemente piazzata nel copione in un momento in cui le strade dei due personaggi principali sono separate. 

Ma chi ha “davvero” finito Automata saprà anche che l’effettivo finale è ancora lontano. Ricaricando il salvataggio non si ricomincia la stessa trama – com’era invece stato nel passaggio dal finale A al finale B –, si va avanti. Si va oltre ciò che ci era stata presentata come una vera conclusione, mentre il sospetto o il timore del giocatore va pericolosamente concretizzandosi. Poi comincia la terza route, il terzo playthrough; e per la prima volta dall’inizio del gioco, al ritmo di una musica tesa e angosciante, si presentano al giocatore i titoli di testa. Comincia un’altra storia. Forse quella vera.

Perché parlare di finale, allora? Perché prendersi la briga di far scorrere i titoli di coda, perché mettere la parola fine a una storia che è solo a qualche pulsante di distanza dal riprendere da dove si era fermata? Non è difficile sottovalutare l’importanza semantica di questa scelta. Dopotutto, si è detto e scritto, la storia continua, A e B non sono veri finali! E invece lo sono. Lo sono, perché gli elementi semiotici che accompagnano il “finale” sono presenti, sono lì, e non possono essere ignorati. 

Non è un caso che nei “finti finali” i titoli di coda siano fatti scorrere in fast forward: è un messaggio non scritto, una voce silenziosa che dice “è solo uno scherzo. Non prendermi sul serio. Torna a giocare”. Ma quando si raggiungono i finali A, B, C e D i titoli di coda sono veri, la storia è davvero finita, è finita nonostante le domande ancora irrisolte e i misteri ancora sepolti. Nonostante ci sia ancora molto, molto altro contenuto.



Arte e buon senso

Non è neanche un caso che non sia il gioco o, più specificatamente, un elemento del suo comparto artistico (che sia un personaggio, un narratore esterno, un elemento visivo o persino il testo di una soundtrack) a suggerire al giocatore “vai avanti”, ma ciò che di più esterno, quasi estraneo e freddo si possa inserire nel codice di un videogame: una “lettera” del team di Square Enix (che ricordo essere i produttori, non gli sviluppatori del gioco) che, più o meno sottilmente, incita a proseguire; a ricaricare quel salvataggio perché, diamine, c’è ancora molto da giocare, e noi abbiamo pagato per far sviluppare quel contenuto. 

Sembra quasi di assistere alla concretizzazione di un conflitto d’interessi: l’artista – lo stupido, ingenuo artista, incapace di dare risalto e valore alle creazioni del suo genio – contro il produttore. Un conflitto vecchio quanto l’editoria, dibattuto alla nausea, eppure immortale. Contestualizziamo: Yoko Taro non è nuovo alla tendenza di gambizzare il suo stesso, spesso brillante, contenuto tramite scelte di design discutibili. Era già successo con il primo Nier, gioco di blande meccaniche e blanda introduzione, che rivela tutto il suo vero, magnifico valore narrativo soltanto ai forti di cuore in grado di raggiungere il primo finale e di andare oltre, di ripetere il tutto nelle route successive, di completare ogni tedioso contenuto secondario. 

A loro e solo loro è concessa la piena comprensione delle vicende, dei personaggi, dei retroscena. Il risultato era prevedibile: vendite irrisorie da una parte, formazione di una piccola ma appassionatissima fanbase dall’altra. Chi ha ragione, dunque? L’arte del creatore o il buon senso del produttore? Non è difficile ipotizzare che i più si schiererebbero con il primo. L’artista è ingenuo, l’artista è stupido, ma tra l’arte e i suoi consumatori dovrebbero esserci meno compromessi possibili, onde non snaturare la visione che tiene insieme le fondamenta interpretative di un’opera. E tra la visione dietro a Nier Automata (o il suo predecessore) e il prodotto finale i compromessi sono davvero pochi. Lo capiamo soprattutto, ma non solo, dal fatto che sia lasciato spazio al peculiare – piaccia o non piaccia – storytelling di Taro, unico e vibrante nella sua bizzarria.



Finale

Il discorso sui finali è parte integrante di quest’ultima riflessione. Presentare al consumatore tutto il comparto semiotico di un “vero” finale – quando la fine delle vicende narrabili è ancora lontana – è sia una scelta artistica che una scelta stupida.

Stupida, perché saranno moltissimi i giocatori a sentirsi giustificati ad abbandonare il gioco dai primi titoli di coda e a percepire solo una parte del valore dell’opera. Artistica, perché sovverte le aspettative del consumatore medio, ribalta la stagnante idea di “new game plus” e dà la possibilità all’appassionato di decidere lui stesso quale sia il finale della sua storia. 

La storia, nel videogioco, finisce solo quando si smette di giocare. Nier Automata lo sa bene, e su questo concetto commenta ancora di più e ancora meglio del suo predecessore. La visione artistica è di chi crea, ma il potere di deciderne le sorti è di chi gioca. 

“Questo finale non mi ha soddisfatto”, potrebbero aver pensato in molti una volta raggiunta la fine della prima route. Ed è normale, anzi: è così che dovrebbe essere. Se davvero vuoi sapere, se davvero vuoi trarre il massimo da quest’esperienza, anche tu, giocatore, devi fare uno “sforzo”.

Devi continuare a giocare.

Il premio per i curiosi, i costanti, gli appassionati, non consiste neanche soltanto nella maggiore comprensione degli eventi narrati o delle motivazioni dei personaggi coinvolti, quanto nel potere decisionale, quasi creativo che viene trasmesso al giocatore nelle ultime battute di gioco. Ne è palese dimostrazione la scelta offerta tra il controllare (e quindi supportare) 9S o A2 al termine della route C, ma anche e soprattutto il finale E nel suo complesso, conseguibile solo dopo aver letteralmente sconfitto l’intero team di produzione nella forma dei titoli di coda. In quel momento si è reduci da ben due finali tragici, che hanno visto la lenta ma inesorabile discesa verso la follia e il sadismo di un protagonista inizialmente puro di cuore e che ci hanno messo di fronte alla schiacciante futilità delle nostre azioni fino al momento della distruzione della torre. 

E solo in quel momento, quando il giocatore è ormai emotivamente allo stremo, si ha accesso al finale E. Combattendo i titoli di coda, si è detto, combattiamo gli stessi ideatori del videogioco: combattiamo la loro visione artistica, il “vero”, ultimo finale nell’infantile ma genuino impulso di riscriverlo, di imporre al copione un’ultima battuta che ci rassicuri che no: non è stato tutto inutile; no: i nostri eroi sono ancora vivi.

Il finale E è il finale del giocatore, l’happy ending che solo lui, con il suo disperato quanto bambinesco ultimo sforzo, può sperare di rendere plausibile. È il suo premio: il potere stesso di scegliere come va a finire la storia.

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