Il consiglio di oggi riguarda un saggio, Lezioni spirituali per giovani samurai, che possiamo considerare come una sorta di testamento morale e spirituale del suo autore, Yukio Mishima.
Quando si parla di Mishima, peraltro famosissimo in Occidente, si inizia sempre dalla fine, quindi dal suo suicidio rituale (seppuku), gesto che lo ha reso immortale scolpendo il suo nome nell’olimpo della letteratura, arrivando a catturare per decenni, e ancora oggi, l’immaginario collettivo.
Ma per Mishima il suicidio non era stato un gesto frettoloso o insensato, anzi a quel pensiero era arrivato dopo un lungo lavoro di riflessione su se stesso, sull’arte, sul nuovo Giappone, sulla vita, sull’amore e sul senso di Patria. Vediamo allora chi era quest’uomo.
Nascere in un’epoca sbagliata
Yukio Mishima (Tokyo, 14 gennaio 1925 – 25 novembre 1970), pseudonimo di Kimitake Hiraoka, fu un uomo complesso: un patriota nazionalista (tanti lo accostano per estetica e scelte politiche a Gabriele D’Annunzio), ma frequentò anche circoli letterari legati alla sinistra, si sposò (probabilmente costretto dalla famiglia), ma continuò a frequentare bar gay e molti sostenevano che fosse bisessuale.
Era un nostalgico, un uomo che non aveva accettato i cambiamenti che avevano investito il Giappone nel dopoguerra e che continuava a credere nel ritorno di un passato glorioso e idealizzato in cui il suo Paese era forte e orgoglioso.
Da quando è ragazzo scrive tantissimo, in prosa (in forma di romanzo-confessione e in terza persona), ma si dedica anche a sceneggiature per il teatro, per il cinema, a racconti brevi e articoli per i giornali. E conosce anche il futuro premio Nobel Yasunari Kawabata, con il quale instaura un rapporto di profonda stima e che considera suo maestro.
Probabilmente ad oggi è lo scrittore giapponese più tradotto in Occidente e uno dei più conosciuti, forse proprio anche a causa del gesto estremo, compiuto in diretta tv, che ne ha cristallizzato l’immagine per sempre: era stato l’unico, nel mondo moderno, ad aver messo in gioco tutto per un ideale, per un mondo che forse ormai non esisteva più.
Il saggio-testamento
Quando si legge un autore giapponese bisogna per prima cosa mettersi nella giusta disposizione d’animo: incontreremo pensieri e situazioni anche lontane dal nostro quotidiano, una profondità di spirito che potrebbe mettere in dubbio le nostre convinzioni e un rapporto con la realtà, spesso, contraddittorio.
E tutto questo si ritrova in Lezioni spirituali per giovani samurai – Wakaki Samurai no tameno Seishin kowa. Il libro raccoglie cinque testi che Mishima scrisse tra il 1968 e il 1970, anni di fermento sia per la vita dello scrittore che per il mondo intero, che sfoceranno nella rivoluzione culturale.
Il libro, attraverso la prospettiva personale dell’autore, offre una chiave di lettura delle tensioni sociali e le contraddizioni che attraversano in quegli anni il Giappone e che secondo Mishima hanno trascinato il Paese verso il suo indebolimento spirituale, e anticipano così anche il significato simbolico del suo suicidio.
Arte, vita e azione
I temi principali che percorrono il libro sono la sfiducia nell’arte e l’azione. Il primo capitolo Lezioni spirituali per giovani samurai raccoglie una serie di indicazioni morali, rivolte principalmente ai ragazzi, norme di buon comportamento per vivere nel mondo in modo positivo. Mishima ragiona poi sull’arte e la letteratura arrivando ad affermare che la vita come l’arte non abbia alcun significato.
Riflette sulla politica, una sorta di teatro in cui la società si esibisce e allo stesso tempo diventa spettatrice della storia. Il testo è pervaso da una tensione spirituale continua; l’autore analizza il senso del coraggio domandandosi dove siano finiti i samurai nel mondo contemporaneo. Non dimentica inoltre di spiegare cosa sia l’educazione e l’etichetta; e lega a doppio filo la disciplina morale e la pratica sportiva, l’una necessaria all’altra nel momento dell’azione. Riflette sulle potenzialità del linguaggio come ponte che, se usato con consapevolezza, unisce gli esseri umani.
Valori orientali e occidentali a confronto
L’autore, da buon osservatore, confronta la cultura orientale e quella occidentale, che sente imposta ai Giapponesi dagli Americani, dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale: opposti modi di vivere la corporeità e la sensualità, diverso modo di vestire, che una volta indicava il ceto a cui si apparteneva e adesso è uno status symbol che inganna, specchio del mondo falso in cui l’autore non si riconosce.
Molto giapponese la riflessione sulla puntualità, che permette all’autore di discorrere brevemente sul valore del tempo, il solo a dare senso alle promesse. Ha una sfumatura politica la sua definizione del rispetto, in particolare per gli anziani, la ‘gerontocrazia’ che governa il mondo, che lascia poco spazio ai giovani, che dice essere stati rinchiusi dalla società. Parla del genio che è frutto dell’impegno, perché, qualsiasi talento deve essere anche levigato e quindi esalta il valore dello sforzo, importante per essere riconosciuti anche socialmente.
La filosofia dell’azione
Nel breve testo “L’Associazione degli scudi” spiega come sia giunto all’idea di costituire una milizia popolare, cioè il desiderio di riaccendere la fiamma dello spirito guerriero giapponese che vede spegnersi.
Nel capitolo Introduzione alla filosofia dell’azione, uno scritto denso – anche per i riferimenti a vari autori occidentali e non solo – chiarisce cosa intenda per azione, non semplicemente quella fisica, ma anche politica e morale, in cui la spiritualità diventa una sorta di molla che innesca e guida l’azione.
E la bellezza dell’azione sta proprio nella sua forza travolgente, in quel lampo, in quel singolo momento che vale un’esistenza intera. Come tale l’azione non può che essere una pura decisione individuale, in cui solitudine, tensione e tragicità si fondono per creare qualcosa di eccezionale. Ma esiste qualcosa, in questa fragile vita, che più di un fuoco d’artificio possegga l’eternità dell’istante?.
I valori più importanti
Incredibilmente attuale la sua analisi della società di massa di cui porta alla luce forza e debolezza e afferma come ogni rivoluzione nasca e divampi dall’animo di un unico essere umano. Considera la vita umana un valore, ma non il più importante, tanto che prima vengono dignità e orgoglio, e in questo senso il passaggio letterario anticipa e offre una base teorica al suo suicidio.
La vera azione, quella che dà significato alla vita, pare non esistere più e gli uomini sono costretti a venerare falsi miti, simulacri di un mondo vuoto in cui gli eroi sono ormai decaduti. Non risulta allora strano che nelle pagine de I miei ultimi venticinque anni Mishima scriva di vivere in un mondo che disprezza e sente di non condividere, e il suo scopo come scrittore sarà allora quello di distruggere le basi di quel modernismo letterario pieno di ipocrisie. L’uomo sente ormai di aver sperperato le energie senza aver compiuto qualcosa di davvero fondamentale, senza aver mosso la società al cambiamento e, in molte pagine, la sensazione è quella di un profondo malessere sociale e culturale.
Il proclama che anticipa il suicidio
Il 25 novembre 1970, insieme a quattro affiliati del suo gruppo paramilitare, occupa il Ministero della Difesa e legge il “Proclama” riportato nelle pagine finali del libro: “Abbiamo veduto il Giappone del dopoguerra rinnegare, per l’ossessione della prosperità economica, i suoi stessi fondamenti, perdere lo spirito nazionale, correre verso il nuovo senza volgersi alla tradizione, piombare in una utilitaristica ipocrisia, sprofondare la sua anima nel vuoto”. La dichiarazione, che dopo il suicidio assumerà l’aspetto della sua ultima volontà, è stata condivisa con il mondo.
In altre parti del libro aveva detto: “Non posso continuare a nutrire speranze per il Giappone futuro. Ogni giorno si acuisce in me la certezza che, se nulla cambierà, il “Giappone” è destinato a scomparire. Al suo posto rimarrà, in un lembo dell’Asia estremo-orientale, un grande Paese produttore, inorganico, vuoto, neutrale e neutro, prospero e cauto. Con quanti ritengono che questo sia tollerabile, io non intendo parlare”.
Mishima non riconosce il mondo che ha intorno e ritiene inutili e deboli le azioni per cambiarlo, altro non resta che il suicidio, che nelle intenzioni dell’uomo non è segno di protesta, ma un’affermazione di più alti ideali, l’unica azione che davvero possa avere ancora qualche significato.
Uno dei più grandi e prolifici scrittori giapponesi del dopoguerra si toglie la vita così, come a voler negare la sua stessa scrittura, colpevole di non essere capace di indirizzare gli uomini verso un vero cambiamento. Allora la domanda che bisogna porsi è: se l’arte e la letteratura non valgono a niente, qual è il loro scopo e senso?
Per tutti questi motivi consiglio la lettura del saggio di Mishima, Lezioni spirituali per giovani samurai, che a 50 anni di distanza – come tutti i grandi classici – risulta ancora attuale e pone interrogativi che spingono a cercare il senso più profondo delle cose; anche se spesso è ormai negato dalla realtà in cui viviamo.
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