Castlevania è sempre stato uno show piuttosto singolare. Dopo una prima stagione composta di soli quattro episodi, per lo più atti a fungere da introduzione ai personaggi e alle vicende, una più corposa seconda stagione (composta, stavolta, da otto episodi) aveva definito più chiaramente gli intenti e gli stilemi degli autori, donandoci una storia forse non perfetta nell’esecuzione del racconto, ma indubbiamente completa e soddisfacente dal punto di vista narrativo. L’adattamento della storica serie videoludica che i ragazzi di Frederator Studios e Powerhouse Animation Studios ci avevano presentato puntava all’obiettivo cui qualunque adattamento degno di questo nome dovrebbe puntare: un’identità. Nel caso del Castlevania di Netflix, quest’identità era un calibrato mix di omaggio al source material e di nuovi elementi, di spiccato umorismo e macabro realismo, di eguale attenzione alle trame secondarie (incentrate sui singoli membri del cast) e quella principale.
Quell’epiteto iniziale, “singolare”, potrebbe dunque benissimo essere interpretato in sola luce positiva; un elogio alla singolarità nella sua accezione di unicità, di originalità. Tuttavia non è così semplice. Dalla seconda stagione in particolare, il Castlevania di Netflix ha cominciato a evidenziare singolarità che hanno a che fare con elementi potenzialmente più problematici in ottica di gradimento del pubblico. Il ritmo della narrazione e la gestione dei personaggi, in particolare, cominciavano a evidenziare scelte piuttosto atipiche in rapporto alle “produzioni medie” della stessa categoria, optando per un approccio lento e calcolato a determinati aspetti del racconto, fatto di scene insolitamente lunghe e sotto-trame a tratti eccessivamente approfondite.
Anziché attenuarsi, queste “singolarità” non hanno fatto che accentuarsi con l’arrivo di questa terza stagione, chiaro segnale che l’approccio metodico e concentrato già riscontrato nella stagione precedente fosse una voluta scelta degli autori – e non un prodotto involontario.
La terza stagione di Castlevania, dunque, si prende il suo tempo: lo fa presentando gradualmente, dettagliatamente le varie scene e le varie sotto-trame, adottando un ritmo che a prima impressione parrebbe più adatto (strutturalmente parlando) a episodi da 50 minuti e a una trama ben più ampia, a un mondo ben più complesso.
Non che questo sia necessariamente un male.
Al contrario della seconda stagione, in cui la posta in gioco era estremamente alta e le vicende avevano, fin dall’inizio, raggiunto una scala globale (fine dell’umanità e amenità simili), in questa stagione un approccio del genere al ritmo pare di gran lunga più appropriato; più intimo, come intime sono le analisi dei personaggi e delle loro relazioni. Senza entrare troppo nel dettaglio e nel fatidico “territorio spoiler”, basti sapere che siamo ben lontani dalla grande trama della fine del mondo a cui la seconda stagione ci aveva abituato. Il focus si frammenta, i personaggi si dividono sia in termini di spazi che di obiettivi, e diventa progressivamente più complesso individuare dei veri e propri protagonisti. Tale sensazione è in parte da attribuire alla natura “transitoria” delle vicende narrate, dal loro presentarsi come viaggi e non come destinazioni (la sotto-trama di Isaac è particolarmente emblematica in questo senso), come preparazione a qualcosa che deve ancora venire.
Da un lato, questa consapevolezza potrebbe deludere alcuni, lasciare in bocca l’amaro di una soddisfazione mancata; dall’altro, è difficile negare la potenza narrativa di un buon “build up” e la capacità di quest’ultimo di accrescere il valore di ciò che verrà. Discorso valido sia per la trama, che al termine della stagione pare pronta a esplodere, sia per i personaggi, ciascuno dei quali avvia il compimento (attuato o subito) di percorsi di crescita o involuzione la cui qualità supera di gran lunga in profondità e interesse quelli presentati dalle passate stagioni.
Quest’ultimo aspetto in particolare è strettamente legato all’approccio adottato da questa stagione alle sue tematiche o, ancor meglio, al fatto stesso che una chiara tematica di fondo sia inequivocabilmente alla base di tutte le storie presentate (cosa che non poteva propriamente dirsi per le due precedenti stagioni). La trattazione di questa tematica, la Solitudine, è utilizzata per mostrarci o approfondire aspetti dei caratteri del cast, contestualizzare loro decisioni, sottintendere commenti sulla natura del comportamento umano, le sue luci e, ora più che mai, le sue ombre. Un livello di profondità che, prima di questa terza stagione, Castlevania aveva lasciato intravedere, ma non aveva mai interamente rivelato.
Un bilancio più che positivo, dunque, forte di una serie che sembra aver accolto in pieno le sue peculiarità, che sembra aver trovato il modo di farsene forza e vanto. Se poi si aggiunge alla soluzione un’animazione forse non troppo costante, ma mozzafiato nei momenti clou (alcuni momenti della battaglia finale meritano particolari elogi) e una sempre maggiore attenzione agli elementi di worldbuilding (come l’equilibrio delle forze in gioco, l’approfondimento della “cosmologia” e la complessità dei vari sistemi magici presentati), si ottiene un’esperienza in grado di annoverarsi a pieno titolo tra i più riusciti adattamenti di proprietà videoludiche.