Fumetti e Cartoni

È stato bello finché è durato

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Per quanto dispiaccia, per quanto sia difficile non riempirsi la testa e la penna di “e se…?”, per quanto spontaneamente sorga la tentazione di maledire Netflix e la sua decisione di staccare la spina “soltanto” dopo sei stagioni, i titoli di coda di quella sedicesima puntata e il bagaglio emotivo degli ultimi otto episodi che quei titoli di coda si trascinano appresso sussurrano, nostro malgrado, la più triste delle consapevolezze: Bojack Horseman, una delle serie più meritevoli degli ultimi anni, è ufficialmente conclusa. Però diamine: diamine se è stato bello, finché è durato. Una bellezza spiazzante e straziante, che con quest’ultima perforante salva di episodi si cementa e si giustifica, ancora una volta, un’ultima volta. E forse, per una serie come Bojack Horseman, che partita dall’iniziale, ingannevolmente unico intento di parodiare l’ingenuo idillio della sitcom americana anni ’90 era arrivata a mostrare e dimostrare magistralmente la realtà di un mondo che da quello nostrano eredita la spietata crudeltà della Conseguenza – in ogni sua forma –, il finale era il bersaglio più importante da centrare.

Bojack Horseman non si smentisce e non si tradisce. Tutto, come sempre la serie ci ha tenuto insegnare, ha una conseguenza. Tutto, nel bene e nel male, arriva a una risoluzione. Questi ultimi otto episodi sono l’occasione migliore di dimostrare quanto sia vero. Il pettine trasporta e districa nodi intrecciatisi nel passato recente e remoto, contestualizza decisioni, influenze, rimpianti e cadute, gioie e riprese; trasporta lo stanco, a tratti rassegnato peso di un personaggio finalmente costretto a nudo di fronte all’evidenza dei suoi peccati, di un antieroe il cui atipico viaggio di crescita narrativa si apprestava, già alla fine dell’ottava puntata pubblicata lo scorso 25 ottobre, a toccare il suo punto più basso; proprio quando sembrava che ogni cosa stesse andando al suo posto. Ma del resto, ne eravamo consapevoli tutti: non era una pace meritata, quella che la stella di Horsin’ Around si era ritagliato. Non era una facilità sincera, non era una felicità giusta – sia per lui stesso, sia per coloro rimasti sepolti sotto le macerie lasciate dal suo passaggio. Prima o dopo, qualcuno avrebbe trovato gli scheletri.

Ancora una volta, un’ultima volta, Bojack viene a chiederci implicitamente se una persona del genere, le cui azioni, le cui decisioni e il cui carattere non possono essere giustificati solo dall’eredità di una pur terribile infanzia, meriti un’altra chance. Meriti comprensione ed empatia. A prescindere dal modo in cui, poi, la vita decida che le cose debbano risolversi. Forse non tutti risponderanno di sì; specialmente dopo una particolare rivelazione, un nuovo dettaglio di cui nemmeno noi, audience, eravamo ancora a conoscenza. Un’ultima volta ci chiede: fin dove può spingersi il perdono? Quali sono i limiti della redenzione? Pochi, pochissimi prodotti dell’ingegno sono in grado di farci interrogare con tale complessità su argomenti che, spesso, sono rilegati a un quieto, inequivocabile contrasto tra bianco e nero; tra bene e male.

Per chi l’ha apprezzata fino ad ora, la seconda parte della sesta stagione di Bojack Horseman è come il coronamento di una promessa, il premio alla fine di un percorso già zeppo di piacevolissime sorprese. È coinvolgente, sperimentale (su tutti la rappresentazione visiva del processo “creativo” di Diane è magistrale nell’idea e nell’esecuzione), soddisfacente e, come ci ha sempre abituato, maledettamente umano. L’ironia scaturita dal fatto che uno tra gli show più umani degli ultimi anni abbia come protagonista un cavallo antropomorfo, ahimè, non credo scadrà mai. In un certo senso, fa parte della sua grandezza.

 

Francesco Cavalletti

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