La serie di videogiochi dal nome Kingdom Hearts è una di quelle che tutti i videogiocatori conoscono, nonostante il primo capitolo sia stato messo in commercio per sua maestà PlayStation 2 – e quindi si tratti di una saga piuttosto recente se confrontata con altre decisamente più vetuste, come Final Fantasy. Pensare a Kingdom Hearts dà quello strano effetto nostalgico, come se si ritrovasse un amico dopo decine di anni di lontananza. Eppure il primo capitolo, che vi vogliamo tratteggiare e consigliare con questo articolo, è del 2002 quindi è sicuramente un titolo vecchiotto ma nemmeno troppo, soprattutto per quei giocatori con qualche anno in più.
L’inizio di una saga promettente
Abbiamo detto nell’incipit di questo pezzo che Kingdom Hearts (tradotto letteralmente come “Regno dei Cuori”) dà il nome a una serie di videogiochi, per l’esattezza undici, che accompagna i gamer dal 2002, e con un numero di titoli così elevato state sicuri che potrete trovare quello che preferite; dai tratti più scanzonati di alcuni capitoli agli avvenimenti più seri e a tratti tragici di altri, non lasciatevi ingannare dalle copertine colorate o dalla presenza di alcuni personaggi “per bambini”, fra tutte queste avventure l’una o l’altra sapranno colpirvi al cuore. Purtroppo oggi non siamo qui per parlare di ognuno di essi – ci vorrebbe davvero troppo tempo, ci saranno altre occasioni non temete – infatti qui vogliamo consigliare, a chi non ha mai giocato ad alcun titolo di Kingdom Hearts, il primo episodio che ha iniziato questa grande avventura.
Kingdom Hearts, questo il titolo del primo capitolo, ha visto la sua prima uscita sulla console di casa Sony Playstation 2 prima in Giappone – a fine marzo 2002 – e poi da settembre a novembre dello stesso anno è stato pubblicato anche nel resto del mondo. Di genere Action RPG (altri esempi sono la saga di Fable, i Fallout e i TheWitcher) è stato sviluppato da SquareEnix (al tempo ancora SquareSoft) – casa madre dei Final Fantasy – è stato un enorme successo commerciale al tempo e in molti Paesi ha aperto la strada a questo nuovo genere videoludico che ha spopolato. In totale le copie vendute sono state più di 5 milioni e mezzo e anche la critica si è espressa in modo positivo. Il tempo ha poi dato ragione sia ai fan che ai critici, dal seme di questo primo episodio ne è scaturito un universo pieno di vita che ancora oggi accompagna giocatori vecchi e nuovi.
La storia che ha dato inizio a tutte le storie
La trama di Kingdom Hearts non è certo la più semplice da spiegare, tanti i personaggi che tessono le vicende e tanti gli avvenimenti che li uniscono e li dividono, perciò qui proporremo poco più che un riassunto di questo primo capitolo, per risparmiare al lettore una lettura eccessivamente lunga e degli spoiler che andrebbero sicuramente a rovinare l’esperienza davanti allo schermo.
La storia si apre su un paradiso tropicale chiamato Le Isole del Destino, dove tre ragazzi di nome Sora, Riku e Kairi passano il tempo a giocare e a sognare; un giorno però decidono di tramutare il sogno in realtà e si mettono al lavoro per costruire una zattera che li porterà lontano dalla loro casa, verso nuovi Mondi. La sera prima della partenza le Isole vengono colpite da una strana e oscura tempesta, Sora si fionda in tutta fretta verso la zattera per accertarsi delle sue condizioni ma trova solo Riku che scompare in un portale misterioso. Preoccupato, Sora cerca anche la sua amica Kairi che scompare a sua volta. Rimasto solo Sora viene attaccato da alcune creature composte di pura oscurità, gli Heartless, che mirano al suo cuore ma a quel punto il ragazzo trova la forza di reagire e nella sua mano si materializza una strana arma dalle fattezze di una chiave, il Keybalde. Dopo aver sconfitto i nemici Sora viene inghiottito dall’Oscurità a sua volta e, dopo essere svenuto, si ritrova in un luogo che non aveva mai visto prima, la Città di Mezzo.
Nel mentre, al Castello Disney, Re Topolino ha lasciato una lettera in cui annuncia di essersi messo in viaggio per capire cosa stia succedendo ai Mondi, che stanno scomparendo uno dopo l’altro a causa dell’Oscurità. Questa lettera viene trovata dai suoi migliori amici, il mago di corte Paperino e il capo delle guardie del palazzo Pippo i quali, a loro volta, si mettono alla ricerca del Re e – come hanno appreso dalla lettera, su richiesta dello stesso Topolino – di una misteriosa chiave che li avrebbe aiutati nella loro missione di salvataggio dei Mondi. Paperino e Pippo quindi salpano sulla loro strana Gummiship e partono per il Mondo più vicino.
Sora appena svegliatosi incontra un nuovo personaggio, tale Leon che, dopo averlo scrutato per bene, decide di sfidare il nostro protagonista per saggiarne la forza; alla fine dello scontro Sora sviene ed è subito portato nell’hotel della città per fare conoscenza con Yuffie, Aerith, tutti “profughi” di Mondi distrutti dall’oscurità che cercano un modo di sconfiggere gli Heartless e ripristinare le loro terre natali. Nel frattempo gli oscuri esseri si stanno facendo sempre più numerosi anche alla Città di Mezzo e l’unico modo per evitare l’invasione totale è sconfiggere il loro capo; Sora si fa strada a suon di Keyblade fino ad arrivare al nemico grosso e cattivo e lì, con l’aiuto di Paperino e Pippo – che erano giunti alla Città di Mezzo poco prima – riesce a sconfiggerlo. Forti della nuova amicizia Sora, Paperino e Pippo decidono di viaggiare per i vari Mondi alla ricerca di Riku, Kairi, Re Topolino e di un modo per estirpare l’Oscurità dilagante.
Disney e Final Fantasy, il duo delle meraviglie
L’idea di mettere assieme i personaggi di due universi così differenti come quello Disney e quello di Final Fantasy aveva fatto storcere il naso a molte persone al tempo di Kingdom Hearts 1 – e ancora oggi, nonostante l’evidente successo della serie, tante persone si fermano a guardare personaggi come Pippo o Zio Paperone e bollano questi videogames come giochi da bambini – ma l’idea si è rivelata vincente.
Bisogna ammettere che è stato un azzardo: da una parte abbiamo i personaggi carini e colorati della Disney e dall’altra quelli seri e più adulti di Final Fantasy; in prima battuta tutti avremmo pensato che un mix del genere, per le differenze evidenti, non avrebbe generato un prodotto godibile e invece i ragazzi di Square Enix hanno strabiliato il mondo riuscendo a fondere magistralmente personaggi tanto diversi. Re Topolino, Pippo e Paperino incontreranno figure storiche della serie JRPG più famosa di tutte: Cloud di FinalFantasy7, Squall Leonheart (qui chiamato Leon) di FinalFantasy8 e Tidus di FinalFantasyX, sono solo alcuni dei personaggi che andranno ad accendere le nostre avventure e non crederemo ai nostri occhi quando ci renderemo conto di quanto quest’amalgama di personaggi e storie funzioni bene. Il vero punto di forza di Kingdom Hearts 1 sta proprio in quest’audace scelta, che ha ripagato il franchise con fama e apprezzamento mondiali.
Lasciatevi trascinare nei Mondi di Kingdom Hearts, apprezzatene i personaggi e le storie e apprezzate la nostalgia di ripercorrere alcune atmosfere Disney che avevate visto nei lungometraggi animati, non rimarrete delusi. Lasciate che conquisti il vostro cuore e sarete ripagati con emozioni indimenticabili.
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Giurista appassionato di videogiochi che ama passare delle ore a guardare anime e serie tv, sembra una descrizione strampalata ma quando si aggiunge anche un sano amore per la palestra... il risultato è ancora peggio. Eppure una volta ero capace di vendermi bene.
“The Ancient Magus Bride”, conosciuto in Giappone come “Mahou Tsukai no Yome” è un manga scritto e disegnato da Kore Yamazaki. Attenzione, in questo Consiglio parleremo prevalentemente dell’anime, quindi mettetevi comodi e preparatevi ad immergervi in una favola ottocentesca, romantica ma dai toni cupi, piena di meraviglie ma anche di orrori.
Trama
Chise Hatori ha solo 15 anni e ha già perso ogni cosa; non ha più una famiglia (alcuni parenti l’hanno addirittura venduta) e ormai non le resta alcuna speranza, ma un incontro speciale sta per cambiare il suo destino. Un mago, Elias Ainsworth, dall’apparenza mostruosa, si offre di comprarla ad un’asta.
Inizia così per entrambi un viaggio interiore che permetterà a Chise di avvicinarsi al mondo della magia e ad Elias, di comprendere la natura umana, e i complicati sentimenti che questa nasconde.
Quasi tutta la storia, composta da 24 episodi, si svolge nelle aree rurali fuori Londra, le ambientazioni sono davvero un punto a favore di questo anime. Sono luoghi aperti, di grande respiro che ci permettono di prendere confidenza con un mondo arcano, che sembra sospeso nel tempo.
Un mondo magico governato da proprie leggi e dove le creature fatate, all’apparenza benevole ed innocenti, spesso nascondono un’indole egoista. L’opera in questo senso si rifà strettamente alle leggende originali della cultura celtica e anglosassone, con le fate spesso descritte come entità capricciose e dai comportamenti ambigui.
I protagonisti
In questa serie l’azione lascia spesso spazio ad una attenta analisi dei personaggi, la cui evoluzione psicologica è al centro di tutto. Sia Chise che Elias infatti sono personaggi ben caratterizzati, divisi tra forza a fragilità e sarà proprio il confronto con le loro insicurezze a permettere ai due di crescere e di avvicinarsi l’uno all’altro, trasformando il loro rapporto. Ad accompagnarli in questo viaggio ci saranno altri personaggi ricorrenti, anche questi ben costruiti, che avranno proprio il compito di costruire un background solido ed emozionante.
I difetti della serie
Fin qui tutto ok, la serie non ha grossi deficit di trama o altro, ma ha quel genere di “problema” che potrebbe dissuadere diverse persone dall’intraprenderne la visione. Il ritmo, che è terribilmente lento. In un anime caratterizzato da poca azione, questo alla lunga potrebbe annoiare. Diciamo che è un anime che va vissuto più che guardato e basta, ed essendo molto emotivo e psicologico alla fine il limite non appare così grave.
I punti a favore
Wit Studio con “The Ancient Magus Bride” ha fatto un ottimo lavoro: i colori brillanti e le vivide animazioni ricreano perfettamente l’atmosfera di un mondo magico. Così anche la colonna sonora che ci accompagna nei vari episodi. Anche la scelta della fotografia è decisamente azzeccata.
Conclusione
“The Ancient Magus Bride” è una fiaba romantica e spietata al tempo stesso, la cui ambientazione ci proietta in un mondo magico fatto di nobili sentimenti e brutalità, di amore e vendetta, eroismo e vigliaccheria. Lo scorrimento lento non è adatto a tutti i palati, ma mi sento di consigliere questo anime agli appassionati del genere che sono pronti a lasciarsi trasportare in mondi lontani, senza la pretesa di vedere o capire tutto subito.
Il manga
The Ancient Magus Bride è un manga shōnen scritto e disegnato da Kore Yamazaki. La pubblicazione è iniziata il 30 novembre 2013 sulla rivista Monthly Comic Blade, su cui è proseguita fino al settembre 2014 per poi passare su Comic Garden, dove è attualmente in corso. In Italia il manga è pubblicato da Star Comics a partire dal febbraio 2016.
L’anime
L’adattamento anime è stato rilasciato nell’autunno del 2016 e conta 24 episodi più 3 oav che trattano una piccola storia che si colloca fra il 12° e 13° episodio. La serie la potete trovare completa su Crunchyroll.
Se a sentire la parola ‘shōnen‘ subito immaginate eroi impavidi e sicuri di sé, possibilmente con un’infanzia traumatica alle spalle, Mob Psycho 100non è l’anime che vi aspettate. Serializzato da ONE nel 2012 come webcomic e poi animato per due stagioni dallo studio Bones, MP100 è il degno successore di un’altra opera che ha sconvolto il genere, One-Punch Man, e non a caso l’autore è lo stesso.
Tanto spassoso quanto sottovalutato, Mob Psycho 100 è un gioiellino poco riconosciuto ma che ha tutto il diritto di entrare nella vostra watch list, e ora vi spiego il perchè.
Di che si tratta
Un po’ come Saiki K, con cui ha diverse analogie, Mob Psycho 100è una parodia del genere superoistico shōnen. Qui l’eroe del giorno è Kageyama Shigeo, un quattordicenne anonimo che tende a confondersi tra la folla, da qui il soprannome Mob. Dietro alla sua poker face perenne, Mob nasconde però una seconda natura: è un potentissimo psichico che reprime i suoi poteri per vivere un’esistenza serena.
Per imparare a gestire queste abilità, Shigeo viene sfruttato lavora per il sedicente spiritista Reigen Arataka all’Ufficio Consulenze Spiriti e Affini, ma è costantemente perseguitato da guai e situazioni stressanti che minacciano di farlo scoppiare. Così, mentre si destreggia fra strane sette religiose, leggende metropolitane e oscure organizzazioni segrete, i poteri di Shigeo continuano a crescere, spingendolo sempre di più al limite.
Un eroe che non vuole esserlo
Come One-Punch Man, MP100 è una action-comedy che ruota attorno a un protagonista OPlontano dai canoni dell’eroe standard.
Innanzitutto, Mob sembra più una comparsa che la star dello show: se l’invidioso fratellino Ritsu e l’esper spaccone Hanazawa sono atletici, popolari e brillanti, Mob è una schiappa su tutta la linea. Insicuro e complessato, considera le sue abilità ESP un optional e per contenerne il potere distruttivo ne sopprime la fonte – le sue emozioni – fino alle estreme conseguenze, tanto da non poter provare nulla senza pagarne lo scotto psicologico.
Comparato ai classici protagonisti inarrestabili e ambiziosi (i vari Monkey D. Luffy, Naruto e Ichigo Kurosaki di turno) Shigeo è un perdente, un outsider che vuole provare a raggiungere il suo obiettivo – conquistare l’amata Tsubomi – con le sue forze, anche se ciò significa versare litri di sudore e lacrime. Nel farlo vacilla e inciampa ma resta sempre fedele a sé stesso, e per questo è un’influenza positiva per amici e avversari, che spesso divengono alleati – dopo averle prese di brutto, s’intende.
Se tolti i poteri Mob ha il carisma di un tavolino da campeggio, a compensareci pensa un cast di tutto rispetto, composto da personaggi fuori dalle righe ma estremamente relatable. Dallo spirito maligno/divinità wannabeEkubo al ciarlatano Reigen (che ha il suo personale spin-off), passando per i fisicati del Club di Perfezionamento Corporeo, le persone con cui Shigeo si relaziona sono il motore del suo cambiamento.
Reigen in particolare, anche se di sovrumano ha solo la parlantina, ha un impatto determinante su Mob. Questo perchè è il primo a vederlo per quello che è: non una bomba ad orologeria ma un ragazzino emotivamente fragile che va spronato, e lo tratta sempre come tale. Quando poi la tensione è più alta, sono spesso le sue uscite imprevedibili e le battute sagaci di Ekubo a evitare la prosopopea, rendendo il tutto più fresco e godibile.
Mob Psycho100 è infatti prima di tutto un anime comico incentrato sulla crescita personaledel protagonista, e per questo sa trattare anche i temi più cupi con la giusta dose di leggerezza e ironia. In questo senso, nella sua assurdità MP100è più realistico di tante altre serie che si prendono troppo sul serio e diventano pesanti, o al contrario scadono nel superficiale lasciando buchi di trama.
Mob: 100%
Umorismo dissacrante a parte, il punto forte dell’anime è il suo comparto tecnico. Sin dall’intro del primo episodio, l’animazione è uno spettacolo per i sensi: lo stile scarabocchiato di ONE è ripreso fedelmente – alcune illustrazioni sono riprese tali e quali dal manga – e viene combinato con colori vividi, effetti speciali e suoni suggestivi che rendendo più che giustizia alle scene d’azione.
La colonna sonora di Kenji Kawai poi è spaziale, soprattutto l’opening della prima stagione e il sottofondo inquietante che accompagna le esplosioni psichiche di Mob, anticipando i pirotecnici scontri. Chiaramente le sequenze più succose dell’anime sono proprio quelle in cui Mob perde la trebisonda, specie quando la sua carica psichica supera il 100%, lasciando a bocca aperta nemici e pubblico insieme.
La sola pecca di MP100 – oltre ad aver smorzato l’ironia tagliente del manga – è l’essere nato dopo One-Punch Man, e per questo tende a essere considerato la sua brutta copia. In realtà, la storia in generale e l’anime nello specifico sono più che validi: i personaggi sono fuori di testa, l’umorismo sempre on point e i combattimenti epici.
Tirando le somme, Mob Psycho100 è un prodotto con i cosiddetti, imperdibile per i patiti di battle shōnene fin troppo simpatico per non iniziarlo seduta stante.
Fire Emblem: Thre Houses è un gioco piuttosto semplice da consigliare. Per quanto il suo genere non sia certo tra i più mainstream in circolazione (oggigiorno lo strano ibrido tra gioco di strategia e gioco di ruolo incarnato dalla serie non è esattamente sotto le luci della ribalta), Intelligent System – la casa di sviluppo – ha farcito la sua ultima fatica di numerosi elementi che, oltre a migliorarne l’accessibilità per un pubblico più ampio, sono in grado di stimolare l’iniziale interesse di potenziali nuovi fan, rendendo così più semplice l’iniziale approccio a un sistema di gioco al quale potrebbero non essere così familiari. Coinvolgente, divertente e in grado di offrire una storia e un mondo sorprendentemente complessi e sfaccettati, Three Houses è senza dubbio una tra le più prestigiose esclusive Nintendo Switch, con moltissimo da offrire ad amanti del genere e non. Esploriamolo insieme.
Una serie storica
Come molti già sapranno, Fire Emblem: Three Houses non è che l’ultimo titolo di una serie che affonda le sue radici agli inizi degli anni ’90. Nello specifico, Three Houses è il sedicesimo Fire Emblem uscito da quando l’IP è in circolazione. Ma non temete: ognuno (o quasi) di questi titoli è completamente indipendente dagli altri. Narrativa, personaggi, ambientazione; al di là di qualche trait d’union identitario (come nomi, razze ed equipaggiamenti ricorrenti), non c’è assolutamente nulla che un nuovo fan non possa apprezzare quanto uno sfegatato d’altri tempi.
Personalmente, non appartengo alla seconda categoria: Three Houses è stato solo il mio secondo Fire Emblem, preceduto soltanto da Fire Emblem: Awakening per 3DS. Lo specifico sia per darvi un’idea più chiara della mia prospettiva, sia per specificare quanto – a mia modesta opinione – Three Houses sia un titolo maggiormente consigliabile rispetto al pur acclamato Awakening. Più profondo, più strategico e generalmente meglio scritto di Awakening, Three Houses è a mio avviso un miglior punto d’ingresso, specialmente se l’intenzione è quella di trovare una nuova serie alla quale affezionarsi e appassionarsi. Intenzione alla quale, nel mio caso, Three Houses è meglio riuscito a venire incontro.
Fire Emblem Three Houses: la premessa e la trama
Come quasi sempre accade quando gioco di ruolo e strategia si incontrano, Fire Emblem: Three Houses è una storia di conflitto, di battaglie e di guerra. Un conflitto che ha al centro le titolari “Tre Case”: tre gruppi di studenti iscritti all’Accademia per Ufficiali, sita nel gigantesco monastero di Garregh Mach. Le tre case sono, di fatti, rappresentanti di altrettanti stati che si dividono il territorio del Fòdlan, il continente su cui si svolgono le vicende del gioco. Nobili e (pochi fortunati) popolani si iscrivono all’academia per migliorare le loro competenze nelle arti delle armi, della magia e del comando, così da essere pronti, una volta adulti, a meglio ricoprire posizioni di potere nel proprio rispettivo stato di provenienza.
I tre stati, l’antico impero Adrestiano, il sacro regno di Faerghus e l’indipendente alleanza del Leicester sono in pace ormai da tempo, nonostante il secondo e il terzo di questi si siano originati da conseguenti divisioni interne all’impero Adrestiano. Come gli eventi del gioco renderanno progressivamente più chiaro, tuttavia, avvenimenti più o meno sotterranei stanno gradualmente facendo fermentare possibili conflitti futuri.
Gli avvenimenti del gioco si concentrano tra l’altro su un anno accademico particolarmente importante per l’istituzione del Garregh Mach: poiché non uno, non due, ma ben tre eredi al trono dei rispettivi stati sono iscritti contemporaneamente all’accademia per ufficiali; Edelgard, la futura imperatrice; Dimitri, il futuro re; e Claude, erede della famiglia che guida l’alleanza.
Nessuno di loro tre, tuttavia, è il vero e proprio protagonista di questa storia. L’avatar del giocatore, il personaggio le cui azioni e decisioni saranno da noi determinate è Byleth: un giovane uomo o una giovane donna (si potrà scegliere il sesso a inizio gioco) figlio o figlia di un mercenario dal misterioso passato, a cui viene offerta una posizione d’insegnamento all’interno dell’accademia per ufficiali. La scelta offerta a Byleth di quale delle tre case guidare come insegnante sarà di gran lunga la scelta più importante del gioco, poiché a ogni casa corrisponde un diverso approccio allo svilupparsi della trama, oltre che, naturalmente, un diverso cast iniziale di personaggi (gli studenti di una determinata casa) con cui avere a che fare sia narrativamente che ludicamente. Un diverso punto di vista, in termini narrativi, ma anche una diversa “route”, in termini più videoludici. Route alla quale, tra l’altro, si resta legati per tutto il resto del singolo playthrough e che, soprattutto da metà gioco in poi, si differenziano pesantemente anche in termini di eventi trattati.
Per quanto a tratti possa mostrarsi confusionaria e parca di particolari, la storia di Fire Emblem: Three Houses è una storia che sa essere matura, intelligente e per niente scontata, riuscendo a toccare – senza sbrodolarsi – tematiche quali la parzialità della storia e i suoi ricorsi, i pericoli di nascenti e già esistenti dittature religiose o politiche e di quanto possa influire la volontà e le azioni di una singola persona sul fato di un intero continente. Il tutto, condito da un cast di personaggi che, pur con alti e bassi, riesce a proporre volti, caratteri e storie in grado di far appassionare e affezionare.
Fire Emblem Three Houses: la struttura
Fire Emblem: Three Houses è un gioco longevo. Estremamente longevo. Anche ignorando il fatto che occorra rigiocarlo quattro volte (forse è più corretto dire “tre volte e mezzo”) per esaurire le trame che il titolo mette a disposizione, un singolo playthrough con una singola casa impiega attorno alle 80 ore. Naturalmente, il valore (o il disvalore) della longevità varia di giocatore in giocatore – ma sappiate che, salvo forse che nelle ultimissime fasi, questo decisamente importante numero di ore non pesa affatto. Più e più volte mi sono trovato a osservare il conto che si accumulava sui miei file di salvataggio, e a chiedermi come fosse possibile che ci avessi effettivamente speso tutto quel tempo. Seppure lungo, insomma, Fire Emblem: Three Houses riesce a mantenersi coinvolgente e interessante pressoché per tutta la sua durata, valicando quindi l’immaginario confine tra il “troppo lungo” e il “troppo lungo, ma almeno non mi sono mai annoiato”.
“Perché quattro? Perché non 3, dato che le case sono 3?”, qualcuno potrebbe chiedersi. Purtroppo, la risposta richiederebbe uno dei più grandi spoiler dell’intera trama. Sappiate solo che una delle tre route prevede un’ulteriore bivio più o meno in corrispondenza della metà. A voi scoprire quale.
Come forse si sarà già intuito, il gioco è strutturato in modo da dividere il tempo del giocatore tra due attività principali: l’insegnamento diretto ai propri studenti (tramite il quale è possibile indirizzare la crescita di un determinato studente verso una specializzazione desiderata), contornato anche dall’esplorazione del monastero e il miglioramento di Byleth stesso/a, e la battaglia. In fondo, gli studenti dell’Accademia stanno studiando per diventare ufficiali militari: anche se inizialmente le poste in gioco e la pericolosità delle battaglie non saranno certo di portata elevata, il tutto aumenterà piuttosto in fretta – proporzionalmente all’aggravarsi degli eventi della trama e all’infittirsi dei suoi misteri.
Il Gameplay
Le due anime appena descritte (fasi di insegnamento/esplorazione e battaglia) sono interconnesse e modulate da un profondo sistema di gestione del tempo. All’inizio di ogni mese in-game, si viene messi di fronte a un calendario, che indica in corrispondenza di quali giorni è possibile svolgere determinate attività. Ci sono i giorni delle lezioni, in cui è possibile istruire direttamente i propri studenti e stabilire i loro obiettivi di crescita; ci sono i giorni “liberi”, in cui è possibile scegliere se esplorare il monastero, seguire un seminario, riposare o svolgere battaglie opzionali; e, infine, c’è il giorno in cui si svolge l’evento mensile (sempre e comunque un qualche tipo di battaglia), che avviene sempre l’ultimo giorno del mese. Ma non è tutto: anche quando si sceglie di esplorare il monastero, si è sempre e comunque tenuti a scegliere accuratamente quali attività svolgere – poiché ognuna di queste (che sia invitare uno studente per un tè, far istruire Byleth da uno degli altri professori o mangiare un determinato piatto al refettorio) comporterà una spesa di “punti attività”, sempre visibili a schermo. Andando avanti nel gioco e con la crescita del “livello professore” di Byleth, sarà possibile svolgere attività grazie al relativo aumento di punti attività.
Un sistema che ricorda vagamente quello reso famoso soprattutto dalla serie Persona, e che, come tale, potrebbe risultare gradito ai fan della serie, già abituati a dover valutare con attenzione quale attività svolgere in un determinato momento. Ma anche un sistema che, messo in mano a persone particolarmente ansiose o indecise sulle proprie decisioni, potrebbe inizialmente mettere in crisi. Personalmente, l’ho trovato un sistema ben congegnato e stimolante, che incoraggia una pianificazione di breve e lungo periodo e su più livelli.
La strategia e il gioco di ruolo
Il vero e proprio “cuore” di Fire Emblem, però, l’elemento che è rimasto con la serie fin dal suo principio, è quello costituito dalle battaglie strategiche a turni. Che sia durante l’evento mensile o durante le battaglie opzionali, il gioco ci pone davanti a una mappa con griglia quadrata, sulla quale sono posizionati il nostro esercito e quello avversario. Contrariamente a giochi di strategia come Total War, tuttavia, l’esercito è fondamentalmente composto soltanto dai nostri studenti, le cui specializzazioni, statistiche, classi ed equipaggiamento sono fortemente influenzabili durante le fasi di insegnamento ed esplorazione. Per quanto dei battaglioni di unità senza nome siano assegnabili ai singoli studenti, la loro importanza è limitata a un solo elemento del gameplay; il focus rimane strettamente sugli studenti e su Byleth, sulle loro mosse speciali e le loro capacità uniche, la loro classe a la loro progressione. Quest’elemento RPG è messo particolarmente in evidenza quando due unità arrivano a scontrarsi sul campo di battaglia, quando il gioco “zooma” per mostrare una più vicina animazione di battaglia tra i due combattenti, mettendo in mostra statistiche come il danno inflitto da ciascuna delle parti, la loro probabilità di andare a segno, i loro punti vita e la loro probabilità di effettuare un colpo critico. Tali statistiche sono in realtà visionabili ancora prima di finalizzare l’attacco di un’unità, così che il giocatore possa fare le dovute considerazioni e decisioni strategiche senza una chiara idea di quale sarà il risultato di ogni singolo scontro.
È un sistema stratificato, profondo, ricco di possibili decisioni sia dentro il campo di battaglia che fuori (quali equipaggiamenti dare a quale unità, quale mossa speciale usare contro un determinato nemico, quali abilità assegnare, quale classe tra quelle sviluppate scegliere per una determinata mappa, quale battaglione assegnare a quale unità, e molto altro ancora), in grado, anche grazie a una difficoltà media tutto sommato elevata, di far girare gli ingranaggi del cervello in maniera stimolante e positiva, innescando un circolo virtuoso di progressivamente migliori decisioni che producono progressivamente migliori risultati sul campo di battaglia. In altre parole, un circolo in grado di creare (positiva?) dipendenza. Superata la curva d’apprendimento iniziale, Fire Emblem: Three Houses è un gioco davvero difficile da mettere giù; soprattutto considerando che, essendo esclusiva Nintendo Switch, potete portarvelo anche in bagno, a letto e sull’autobus. Come me, vi ritroverete alla fine di una route, vedrete di aver accumulato 80 ore di gioco e penserete: “Ma sì, adesso lo ricomincio con un’altra casa”.